Commissione Femminicidio: il nuovo report non scioglie i dubbi
La Senatrice Valente aveva annunciato, ormai nel giugno 2020, di avere avviato un’inchiesta sulle separazioni che vedevano le madri vittime di violenza istituzionale. La Commissione Femminicidio da lei presieduta aveva deciso di analizzare i casi in cui la madre veniva dichiarata decaduta o sospesa dalla responsabilità genitoriale e la prole minorenne veniva data in affidamento al padre o collocata presso il padre. Forse si tratta solo di una coincidenza, tuttavia la cosa partiva sulla scia del caso di Laura Massaro, per la quale la Senatrice e altre parlamentari si sono spese molto, veramente molto. Anche parlamentari esterne alla Commissione sproloquiavano sui social al grido di “maledetta PAS, maledetta legge 54, maledetta bigenitorialità”. Dopo comunicati, post sui social, interrogazioni parlamentari, manifestazioni e conferenze stampa, l’inchiesta ad personam sembrava proprio la ciliegina sulla torta. Tuttavia - per non apparire troppo sfacciatamente ad personam - non poteva l’intera Commissione lavorare ad un solo caso, quindi ha annunciato di aver raccolto circa 600 fascicoli più o meno analoghi. Gli obiettivi dichiarati all’agenzia DiRe: “La Commissione parlamentare d’inchiesta sul Femminicidio da tempo ha rivolto attenzione a come la violenza venga letta e riconosciuta nei tribunali, al fenomeno della PAS, a se e quante volte sia stata derubricata a conflitto nelle cause di separazione e di affido dei minori con le conseguenti forme di violenza agite sui bambini, che sono di fatto violenze dirette sulle loro madri. E’ la sintesi dei temi e delle riflessioni che la Presidente della Commissione, la senatrice Valeria Valente, ha affrontato in un’intervista esclusiva rilasciata all’agenzia Dire in cui ha presentato il lavoro della Commissione in corso in questo ambito (…) indagine dentro i fascicoli su come sia stata trattata la violenza nei processi, troppo spesso derubricata a conflitto. Andremo a vedere quante volte sia stata usata questa parola, quante volte la violenza non venga riconosciuta, quante volte si parli di PAS e le conseguenze che questo genera nell’affido dei minori. E quindi quante volte il tema violenza entri nella valutazione della responsabilità genitoriale. Abbiamo chiesto a Linda Laura Sabbadini, una nostra consulente, di definire un campione rappresentativo, tra tribunali del nord, del sud, piccoli e grandi e proprio la settimana scorsa abbiamo individuato un campione di 572 fascicoli e andremo a visionarli uno ad uno, guarderemo nel merito.(...) Una madre che assiste ad una violenza sul proprio figlio (costretto ad un collocamento che non vuole, o ad una casa famiglia) è una violenza diretta sulla madre. Leggiamo le cose in questo modo”.
Che ci volete fare, loro leggono le cose in questo modo. Il riferimento al figlio costretto a un collocamento che non vuole (presso il padre, ovviamente) o in una casa famiglia è l’asse portante delle molteplici richieste di ispezioni nei tribunali, opposizioni, reclami e richieste di sospensione presentate proprio dalla sig.ra Massaro ma, lo ripetiamo, da inguaribili ingenui non possiamo che considerarla solo una curiosa coincidenza. Resta il fatto che l’inchiesta sembrava una dichiarazione di guerra ai tribunali che osavano violare l’ordine costituito secondo il quale per alcune madri i figli sono “cosa nostra”. Casa, assegno e figli spettano alla madre per consuetudine consolidata da oltre 40 anni. Nei milioni di separazioni, divorzi e cessazioni di convivenza con affido dei figli dal varo della legge 54/2006 ad oggi un campione di 572 casi rappresenta veramente poca cosa. Tuttavia anche in quei pochi casi, invece di chiedersi cosa mai debbano aver combinato quelle madri per spingere i giudici ad adottare misure tanto inconsuete ed impopolari, è meglio insinuare complotti antimaterni col coinvolgimento di tutto il sistema giudiziario fatto da avvocati, giudici, assistenti sociali, tutori e soprattutto cattivissimi CTU schiavi della PAS, tutti coalizzati per penalizzare le donne vittime di violenza. Quindi arriva lancia in resta la Commissione Femminicidio a ristabilire la normalità: facciamo pelo e contropelo alle sentenze per smascherare le magagne del sistema. E soprattutto per sbugiardare la PAS, autentica ossessione delle Massaro-fans anche se ormai la comunità scientifica ha appurato da anni che non esiste come sindrome, ma continua ad esistere solo nella fantasia di chi la contesta per poter dire che non esiste. Sembra un loop logico prima ancora che giuridico, ma tant’è: l’inchiesta intendeva verificare “quante volte si parli di PAS e le conseguenze che questo genera nell’affido dei minori”. L’inchiesta avrebbe dovuto svolgersi mediante “un questionario sulla base del quale magistratE che si occupano di civile, penale e minorile, avvocatE dei centri antiviolenza, espertE dei tribunali dei minori e psicologhE faranno un’istruttoria leggendo i diversi fascicoli”. Un pool non certo bipartisan, ma la Valente è questo che aveva annunciato. Beh, di questa rivoluzionaria inchiesta non c’è traccia. Annunciata per ottobre 2020, non è mai stata presentata. Ci eravamo già occupati del preoccupante ritardo rispetto ai tempi annunciati, ma ora, dopo oltre un anno, sembra proprio che tale inchiesta non vedrà mai la luce. Non è stata portata a termine? Oppure è stata portata a termine, ma non è il caso di renderla pubblica perché i dati emersi non sono funzionali al postulato di partenza, quindi non sono utili a dimostrare l’accanimento antimaterno, la violenza istituzionale, la strumentalizzazione della PAS? Oppure l’accantonamento dell’indagine è dovuto allo scemare dell’entusiasmo per il caso Massaro, rispetto al quale la Senatrice Valente e le altre sembrano aver esaurito l’opera di fiancheggiamento?
Nessuna definizione, nessun elenco dei casi.
Domande alle quali non avremo mai risposte, ma nel frattempo la Commissione non è rimasta con le mani in mano e ha sfornato un’altra inchiesta: "La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia". Ah però! Gustosa occasione per analizzare finalmente il criterio stabilito ufficialmente dalla Commissione per definire un reato in realtà inesistente nel codice penale, nonché per vedere quali e quanti episodi la Commissione stessa consideri rispondenti a tale criterio. Si tratta di un documento corposo, 92 pagine, sicuramente fugherà ogni dubbio sul femminicidio che fino ad oggi, in tutta sincerità, è rimasto fin troppo fumoso, indefinito e confuso sia come concetto giuridico che come numeri ufficiali. Prima delusione: non esiste l’elenco dei casi presi in esame. “L'analisi fa riferimento a 192 casi di femminicidio (di cui 81 nel 2017 e 111 nel 2018)”. Dice quanti, ma non quali. Nell’indagine compaiono numeri, tabelle, catalogazione per fascia d’età di autori e vittime, nazionalità di autori e vittime, relazione tra autori e vittime, situazione occupazionale degli autori e vittime, ripartizione sul territorio, eventuale suicidio dell’omicida sia in valori assoluti che in rapporto alla fascia d’età, incidenza delle dipendenze per autori e vittime, eventuali precedenti penali, modalità della morte, attenuanti concesse, entità delle pene e tanto altro ancora, per un totale di 16 grafici, 29 tabelle e 37 capitoli di approfondimento. In tale messe di dati emerge la carenza più rilevante: non esiste un elenco delle vittime. Si tratta di una dimenticanza macroscopica in quanto impedisce a chiunque la verifica di tutto ciò che afferma l’indagine. In decine di occasioni abbiamo effettuato delle analisi approfondite sugli elenchi ufficiosi dei femminicidi, o presunti tali, pubblicati online da vari osservatori e siti privati. Ogni volta abbiamo rilevato numeri gonfiati poiché nel grande calderone dei femminicidi viene sistematicamente infilata una serie di episodi delittuosi che nulla hanno a che fare con la prevaricazione di genere, l’oppressione maschilista, la gelosia morbosa, il possesso, la mancata accettazione della fine di un rapporto, le sovrastrutture culturali misogine e tutte le altre definizioni che di volta in volta vengono citate per motivare una fattispecie di reato che non esiste nel nostro impianto normativo. Quindi il numero dei presunti femminicidi, da solo, non vuol dire nulla se viene negata la possibilità di verifica. Nell'articolo di mercoledì, che completerà la nostra analisi, dimostreremo perché.
Seconda delusione: non esiste un criterio certo di classificazione del femminicidio. Dice il report: "La Commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio (…) ha tra i suoi compiti istituzionali quello di svolgere indagini sulle reali dimensioni, condizioni, qualità e cause del femminicidio, inteso come uccisione di una donna, basata sul genere”. Uccisione di una donna basata sul genere non vuol dire nulla. Il marito che uccide la moglie sposata 12 anni prima non realizza improvvisamente di avere accanto una donna che odia inquantodonna. Sarebbe utile analizzare cosa sia accaduto in prossimità dell’evento omicidiario per dare vita al gesto delittuoso: quale nuovo elemento è intervenuto nella storia della coppia e/o dell’assassino per scatenare la pulsione omicida? Un debito? Una patologia? Un licenziamento? Una separazione? Un allontanamento dai figli? Un tradimento? Un ricatto? Una vendetta? Altro? Il rapporto causa-effetto tra l’uccisione di una persona e il fatto che tale persona sia una donna non ha alcun fondamento giuridico, sociologico, antropologico, criminologico. Nulla giustifica l’omicidio di una donna, che è un reato gravissimo e tale rimane, tuttavia ignorare qualsiasi elemento collaterale non giova alla esaustiva analisi della fenomenologia, è fuorviante ricondurre tutto all’uccisione basata sul genere. L’ha uccisa perché è una donna è una lettura squisitamente ideologica. Continua il report: “la Commissione (…) ha deliberato di svolgere un'inchiesta sui femminicidi intesi come uccisioni di donne da parte di un uomo determinate da ragioni di genere, (…) allo scopo di selezionare e individuare il numero dei femminicidi, cioè degli omicidi di donne uccise in quanto donne”. Ancora ragioni di genere, ancora donne uccise in quanto donne, qualsiasi cosa vogliano dire tali espressioni. La speranza di ottenere chiarezza in merito alla definizione di femminicidio rimane cronicamente disattesa. Alla fine c’è la chiara ammissione di non sapere con precisione di cosa si stia parlando: “Ad oggi in Italia (…) mancano dati univoci e certi sia sui reati contro le donne che sui femminicidi. (…) Per esaminare i casi oggetto dell’inchiesta il primo problema affrontato è stato quello di distinguere tra uccisioni di donne e femminicidi, in assenza di una definizione di questo crimine. Infatti, non ogni uccisione di una donna è un femminicidio (…) mancando disposizioni normative, interne o sovranazionali, che qualifichino il femminicidio, si è ritenuto di prendere come base: la definizione contenuta nella delibera istitutiva della Commissione secondo cui femminicidio è "inteso come uccisione di una donna basata sul genere”; la definizione richiamata nella Risoluzione del Parlamento europeo del 28 novembre 2019, secondo cui il femminicidio è “la morte violenta di una donna per motivi di genere, che avvenga nell’ambito della famiglia, di un’unione domestica o di qualsiasi altra relazione interpersonale, nella comunità, a opera di qualsiasi individuo, o quando è perpetrata o tollerata dallo Stato o da suoi agenti, per azione o omissione”; le definizioni del fenomeno elaborate dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. Pen., Sez. I, 1 febbraio 2021, (dep. 28 maggio 2021), n. 21097; Cass. Pen., Sez. I, 27 maggio 2019 (dep. 15 gennaio 2020), n. 1396, Cass. Pen., Sez. I, 21 luglio 2019 dep. 16 aprile 2019, n. 12292.).
Italia: tra i paesi più sicuri del mondo per le donne.
Ancora l’uccisione di una donna basata sul genere, poi vengono citate le sentenze ma non le definizioni della Cassazione, inoltre la risoluzione del Parlamento UE aggiunge altra nebbia alla nebbia già esistente: è inesatta per alcuni versi, lacunosa per altri e incomprensibile per altri ancora. Ad esempio una donna può essere uccisa da uno spasimante che non viene degnato di alcuna attenzione, quindi una tipologia di delitto non compresa nell’ambito della famiglia, unione domestica o qualsiasi altra relazione interpersonale. Viene uccisa perché non esiste alcuna relazione, se non nei desideri reconditi dello spasimante che si trasforma in assassino proprio per non riuscire ad avere alcuna relazione, neanche amicale, con la vittima. “Ad opera di qualsiasi individuo”, poi, è una dicitura omnicomprensiva, che quindi ingloba tra i responsabili di femminicidio non solo uomini ma anche donne e qualsiasi sfumatura del mondo LGBTQ+IA. Nelle demistificazioni degli anni precedenti abbiamo trovato tra i femminicidi madri uccise dalle figlie, figlie uccise dalle madri, zie uccise dalle nipoti, suocere uccise dalle nuore, ragazze uccise dalla ex fidanzata. “Morte violenta di una donna perpetrata o tollerata dallo Stato o da suoi agenti”, è poi una dicitura francamente incomprensibile. Come possa lo Stato uccidere con violenza una donna o tollerarne l’uccisione violenta ha il sapore di una forzatura ideologica che va oltre ogni raziocinio. Se la Commissione avesse pubblicato l’elenco delle vittime, saremmo curiosi di sapere quali vengono annoverate come uccisioni perpetrate o tollerate dallo Stato. Ma l’elenco non c’è, quindi questa e tante altre verifiche, come vedremo nella seconda puntata, sono di fatto impossibili. Per quanto riguarda questa prima parte, in conclusione sembra di cogliere nell’indagine una malcelata volontà di confondere le acque.
Compare un’ampia panoramica sulla gravità del femminicidio nel mondo, anzi, della violenza contro le donne in senso lato: “La violenza contro le donne ha proporzioni epidemiche nella gran parte dei Paesi del mondo (…). Milioni di donne, in Italia e nel mondo, sono vittime di violenza, indipendentemente dal loro livello educativo, professionale o socio-economico. Il fenomeno è stato quantificato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): la violenza maschile colpisce di media il 35% delle donne” (…). Il femminicidio costituisce l’espressione più grave della violenza rappresentando, in tutto il mondo, la prima causa di morte per le giovani e le donne da 16 a 44 anni vittime di omicidio volontario”. Il tutto per citare dati, appelli e risoluzioni dell’immancabile Convenzione di Istanbul, del CEDAW e del GREVIO, sempre con riferimento a tutta Europa o tutto il mondo. Ripetuti riferimenti alla violenza in generale e al femminicidio nel mondo sono fuorvianti rispetto all’oggetto dell’indagine, che si riferisce espressamente alla risposta giudiziaria che viene data al femminicidio in Italia. Le conclusioni riguardano le criticità emerse in Italia (il linguaggio delle sentenze in Italia, stereotipi e pregiudizi giudiziari nella casistica italiana, il contesto sociosanitario italiano, etc.) per le quali appare opportuno un intervento di carattere legislativo, ovviamente in Italia. Cosa c’entrano le donne uccise in Messico, in India, in Nigeria o qualsiasi altra parte del mondo? Sarebbe come fare leva sull’allarme per la diffusione dei topi in Asia e in Africa per dimostrare l’urgenza della derattizzazione in Italia; per rimanere aderenti ai temi di attualità, sarebbe come citare i dati dei contagi Covid in Brasile per chiedere il passaggio delle regioni italiane da giallo ad arancione. L’Italia, fortunatamente, è uno dei paesi più sicuri per le donne in Europa e quindi nel mondo. Non ha alcun senso chiedere un intervento di carattere legislativo in Italia perché nel resto del mondo le donne vengono uccise come mosche. È intollerabile anche una sola vita persa a causa della gelosia morbosa di un uomo italiano; tuttavia i contorni del fenomeno nel nostro Paese sono diversi, e molto, rispetto all’emergenza mondiale rilevata da più parti.
[L'analisi del report della "Commissione femminicidio" prosegue venerdì].
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